"Ai piedi di Cristo quella donna siamo noi" di sr Maria Gloria Riva

 

Non siamo così lontani, noi, dalla visione della croce che ebbe Dalì negli anni in cui, tormentato dalla scissione dell'atomo che aveva provocato la bomba atomica, dipinse il Corpus Hypercubus, Nell'opera domina il quattro, numero della violenza dell'uomo: quattro come squartare, come fare in quattro, come dirne quattro; quattro come le latitudini che segnano l'orientamento umano: nord sud est ovest. La croce, su cui Cristo sta, è infatti costituita da otto cubi: il quadrato elevato a potenza. Il Cristo di Dalì si staglia dunque, immacolato e perfetto, contro un cielo scuro e un'improbabile croce cubiforme. Quel corpo perfetto e senza tracce di sangue colpisce e affascina, tanto da non poter distogliere da esso lo sguardo. Da ciò che del volto di Cristo s'intravede si nota chiaramente anche l'assenza della barba. Quello di Dalì è un Cristo imberbe, bellissimo e glorioso, eppure sacrificato come testimonia - senza equivoci - lo spasmo delle mani e la posizione del capo. Cristo è l'ultimo Adamo e ci riporta in quel giardino in cui si giocò la prima partita con la morte. Un appuntamento che ancora ci offre la storia. Siamo anche noi tutti in quel giardino, con le nostre domande sull'origine e la fine dell'uomo, sul cosiddetto orientamento sessuale. Siamo lì come la donna vestita di seta di Dalì.

Cristo è, dunque su una croce cubiforme: immagine che inquieta perché esaspera la sospensione del corpo di Cristo tra cielo e terra. Su quella Croce, Gesù non ha requie, non può neppure riposare nel sonno della morte: egli è vivo e agonizzante. Come non rammentare qui la famosa espressione di Pascal: Cristo è in agonia fino alla fine del mondo!

La Croce dipinta da Dalì racchiude la somma del dolore del mondo, la somma della malvagità umana, il peso della materia che si ribella alla volontà del suo Creatore. Questo carico di dolore e di peccato è l'altare su cui Cristo s'immola. È quella croce che instancabilmente Papa Francesco annuncia a un mondo che continua a esorcizzare il dolore. E noi siamo lì, sotto, vestiti a festa davanti a un irreale pavimento a scacchi che indica il perpetuarsi appunto, nei secoli, l'ombra di quel dolore. La scena è drammaticamente vuota e la donna appare ancora più elegante contro la nudità del Crocifisso. I colori degli abiti della donna richiamano i colorì della scena: l'ocra della croce, l'argento della pavimentazione a scacchi, il blu del mare. La veste più nascosta, quindi più vicina alla sua carne è il blu - che richiamando il mare simbolo del male - rimanda alla fragilità umana, al peccato. Il drappo ocra dice l'identificazione della donna con il Crocifisso che contempla. Il manto argenteo, che più delle altre vesti riflette la luce, dice la divinità. Qualcuno vede in questa figura la Madonna, altri, la Maddalena. Certamente è il ritratto di Gala, amata moglie di Dalì e musa ispiratrice delle sue opere.

A me piace vedere in quella donna la Chiesa, cioè noi, continuamente in lotta con la misura della croce, chiamati a sconfiggere le nostre fragilità grazie al lavacro di quel sangue redentore. Noi, chiamati a brillare di una luce che non ci appartiene, ma che riceviamo dalla contemplazione del Crocifisso. Noi che viviamo sempre lo scarto tra un mondo affondato nel buio delle sue strettoie ideologiche - come la scacchiera che sta sotto la croce di Cristo - e lo splendore della verità che riverbera dal Crocifisso. Mi sembra che la Pasqua ci stia sorprendendo così: pieni di speranza, consapevoli che il male non è ancora sconfitto del tutto, ma presaghi di quei bagliori di luce che già si vedono all'orizzonte. La nobildonna che contempla il crocifisso si è fermata al quarto gesto nel suo segno di croce: manca sentire qualcuno all'appello, prima che si compia l'Amen. Mancherà certo qualcuno alla mensa dì questa Pasqua, ma noi dobbiamo comunque compiere quel gesto fino in fondo e stare davanti a Dio, nella fedeltà, per tutti.